archivio_magazine.jpg

Mi chiamo Enea Brigatti, purtroppo fra poco compio trentatré anni.

Vivo a Torino ma sono drammaticamente brianzolo, nato e cresciuto nella suburbia dell’hinterland milanese. Non so far niente in particolare, ma posso imparare a fare di tutto, a volte addirittura anche calcoli e cose così. 

Come per tante altre persone, nella mia vita c’è un prima e c’è un dopo, un momento che ha fatto perdere un po’ di valore a tutto quello che è successo prima e che ha condizionato la maggior parte di quello che è venuto dopo. 

Questo momento per me coincide con l’aver prestato un anno di servizio civile in biblioteca, e lì aver conosciuto una persona che ha cambiato il mio modo di guardare le cose: prima di incontrare Carla Rivolta, — direttrice delle Civica di Lissone, ora in pensione — i libri erano una passione legata a un piacere personale; lavorando a stretto contatto con lei ho capito che invece potevano essere la base per un discorso collettivo, di inclusione sociale. Un modo per stare insieme agli altri, conoscere tante persone, trasformare un discorso astratto in qualcosa di concreto. Ma soprattutto erano i suoi modi di intendere vita e lavoro a colpirmi: apertura, gentilezza, fermezza mai sorda, curiosità, preparazione, una certa leggerezza d’animo che io non conoscevo. Lavorare con lei significava assorbire tutte queste cose, e per la prima volta non dovevo cercare un modello da seguire nella letteratura, ma lo avevo semplicemente davanti tutti i giorni.

C’era una cosa che mi piaceva tantissimo, e che avevo percepito lavorando con lei ossia che i libri fanno parte della vita, ma non sono la vita stessa: l’idea che si potesse vivere, viaggiare, innamorarsi, avere dei figli, una casa, mangiare cose buone, e che i libri servissero ad alimentare tutte queste cose, e non a sostituirle.  Io arrivavo da un’idea poco colorata della vita, ero e continuo ad essere una persona un po’ tetra, con gli occhi all’ingiù: lì invece il mio sguardo è cambiato, si è liberato di un velo coprente.

Si è allargato

In quell’anno ho scoperto un sacco di cose, e ho capito un po’ come volevo stare al mondo: ho avuto la fortuna che Carla vedesse delle cose in me che mio non vedevo e non avevo mai visto, e che si fidasse di quello che mi piaceva e cdi quello che pensavo: quindi mi ha coinvolto in tante situazioni, mi ha introdotto nel mondo degli adulti, mi ha dato fiducia. Insieme abbiamo portato avanti una rassegna letteraria che ha avuto dieci edizioni, un progetto in collaborazione con Feltrinelli e Scuola Holden che si chiamava La biblioteca è una bella storia, ripensato alcuni servizi della biblioteca: insomma sono stato fortunato, ho avuto tanto. Finito il servizio civile, ho continuato l’università, fatto degli stage, trovato altri contratti simili al servizio civile e altri invece a prestazione occasionale, fra musei e festival di cinema, ma non ho mai smesso di collaborare come volontario con la biblioteca di Lissone, è stato un filo rosso dei miei venti e qualcosa. 

A un certo punto ho cominciato a capire che mi sarebbe piaciuto provare a pensarmi come un lavoratore vero dell’editoria, con uno stipendio eccetera: dunque mi sono iscritto a un master, sapendo bene che era una mezza follia perché andavo alle fiere, alle presentazioni dei libri, ai corsi, ed ero consapevole della difficoltà di affermarsi in un settore così, soprattutto se non si è mai convinti dei propri mezzi e si hanno mille incertezze personali. Ma ero anche realista: sapevo che fra master e stage non avevo più di un anno di tempo per poter iniziare a essere pagato, finito quel tempo lì non ne avrei avuto altro. Sono un privilegiato, vengo da una famiglia piccolo borghese di provincia che mi ha sempre sostenuto fin dove ha potuto, moralmente ed economicamente: però a ventisette anni il mio desiderio era quello di pagarmi affitto, bollette, dischi, tofu, pagnotte di grano duro, accendini e sigarette in autonomia, come tutt*. Ho fatto sei mesi avanti e indietro da Lissone a Pavia, sui primi treni del giorno e gli ultimi della sera, e poi sei mesi di tirocinio come ufficio stampa a Torino in una casa editrice che aveva un coltello ben affilato fra i denti, dove ho incontrato persone incredibili, e dove mi è stato dato tanto spazio: qualcosa è andato per il verso giusto, e lì sono rimasto — nel settore comunicazione — dal 2016 al 2019. Dentro add editore ho imparato tantissime cose, come persona e come professionista: se in biblioteca anni prima era stato lo sguardo a cambiare, qui è stata la voce, sono passato da un sibilo a un tono quantomeno udibile. Poi per motivi personali a un certo punto nel 2019 ho deciso di cambiare — assecondando un’esigenza personale, grazie alla proposta da parte di Promemoria Group di entrare nelle loro fila.

Per Promemoria seguo come segretario di redazione Archivio, e come segretario di produzione i progetti di podcasting che sono stati sviluppati dall’azienda negli ultimi due anni (L’atlante sonoro degli Archivi Italiani e Il Principio della Fenice, entrambi scritti e interpretati da Valentina De Poli). Di Archivio seguo anche la comunicazione, i social network, e la distribuzione nelle librerie — con il supporto dell’ufficio amministrazione di Promemoria, l’insostituibile Antonella Rosa. Faccio parte poi del gruppo di lavoro del festival Archivissima, per il quale mi occupo del programma insieme alla responsabile della rassegna Manuela Iannetti.

Che cosa faccio, concretamente: con il coordinamento fondamentale di Giacomo Golinelli, che di Promemoria è COO, lavoro per far sì che Archivio da insieme di idee diventi un prodotto materiale, dunque affianco la redazione, la tengo più vicina possibile nelle sue parti, parlo tanto al telefono e scrivo tante mail, penso ai preventivi, conto le battute e i giorni che servono per fare tutto, curo i rapporti con gli archivi e quelli con le persone che vengono coinvolte di numero in numero.  Guardo tante immagini — tantissime immagini, riempio cartelle di preferiti, seguo i documenti in strade che poi si rivelano chiuse oppure in fiumi che poi diventano un mare in cui si può nuotare a corpo a braccia distese. Sciolgo i nodi, sto spesso in pensiero, mi entusiasmo moltissimo anche per un allegato di una mail, rimango sulle spine giorni se aspetto una risposta che non arriva. Agisco in autonomia, ma mai da solo: per esempio la ricerca dei documenti d’archivio è una mia responsabilità, ma posso contare su una rete di contatti interni a Promemoria, grazie all’aiuto delle/dei collegh* riesco ad arrivare a persone e realtà che mi risulterebbe difficile altrimenti raggiungere. In questo il ruolo di Promemoria è cruciale: la buona riuscita della rivista è possibile grazie al rapporto di fiducia e credibilità che ogni giorno porta avanti l’azienda con gli archivi, e non viceversa.

Worried Shoes_enea_brigatti.jpg

La stessa credibilità io cerco di tenerla salda anche con il magazine: è un lavoro che non ho mai fatto in precedenza, sto imparando direttamente sul campo, non ho la pretesa di dire che funziona già alla perfezione ma la buona volontà c’è.

Racconto questa cosa che mi sembra che tenga dentro un po’ tutto: la scorsa estate sono andato a fare un piccolo giro delle librerie milanesi che vendono Archivio, a Milano: era la prima volta dopo lo scioglimento del lockdown che facevo ritorno in Lombardia, il mondo sembrava ricominciare a girare, per strada c’erano tante persone. Era un momento bello e strano.

Sono passato anche da Studio Òbelo per portar loro delle copie del magazine, e lì ho incontrato una persona che collabora con loro che presentandosi mi ha detto “Noi non ci siamo mai visti prima, ma io ti conosco comunque bene: sei la voce preoccupata che verso le cinque del pomeriggio chiamava sempre Claude e Maia e iniziava a elencare ansie e problemi”.

Ecco, è vero: per me il lavoro su Archivio è quello di provare ogni giorno ad allontanarmi da quella voce allarmata, togliermi le worried shoes di cui cantava Daniel Johnston, acquisire qualche certezza in più, abitare un corpo in cui sentirmi a mio agio.  Questo sia nel mio impiego sulla rivista — finché me lo consentirà Promemoria, come nella vita in generale.

Faccio solo questo.  Dopo tanti anni passati a incastrare un lavoro sopra l’altro ora ho la fortuna di avere un lavoro solo che ne contiene tanti.

Archivio nasce dentro Promemoria Group, azienda commerciale che dal 2010 si dedica agli archivi, fondata e guidata da umanisti. Promemoria rappresenta l’unica realtà italiana specializzata nel recuperare, conservare e valorizzare il patrimonio storico di grandi aziende, istituzioni e collezioni: grazie al lavoro di 40 fra collaboratori e dipendenti gli archivi vengono trasformati in strumenti di innovazione strategica e culturale. L'archivio dunque non come fine o finalità del lavoro, ma come mezzo per ottenere qualcosa di nuovo: una prospettiva rivolta al futuro, dove la propria storia diventa uno strumento di orientamento, innovazione ed evoluzione.

Archivio è dunque parte di sistema: un progetto ideato dai fondatori dell’azienda Andrea Montorio e Gisella Riva, che nel 2017 hanno deciso di aggiungere un elemento in più alla strategia di valorizzazione cartacea degli archivi. Quello era il momento giusto per diffondere l’idea dell’importanza dei contenuti d’archivio attraverso un progetto editoriale forte, e con un’impronta pop ma ricercata, con l’obiettivo di promuovere la cultura d’archivio con uno sguardo contemporaneo, muovendosi fra arte, cinema, politica, fotografia, architettura. L’idea era di far conoscere contenuti d’archivio che altrimenti sarebbero rimasti nascosti, e abbinarli a voci autorevoli di scrittrici/scrittori, giornaliste/i, accademiche/accademici. Da subito si sono impostati i lavori perché fosse un semestrale, e che fosse in inglese (con traduzione in italiano inclusa): da una parte una tempistica che permette di avere regolarità in libreria, dall’altra una forma che consente una distribuzione internazionale.  

I primi quattro numeri della rivista sono stati realizzati a livello grafico e contenutistico da Nationhood, con Alba Solaro nel ruolo di editor-in-chief: già dalla prima uscita il magazine ha suscitato un grande interesse fra il pubblico dei lettori, fra gli addetti ai lavori, fra libraie e librai, grazie a contenuti di alta qualità e un impatto visivo molto forte e ben studiato. Una volta lanciato il progetto e trovato risposte a domande che inizialmente erano solo teoriche (come si realizza un magazine? Quale sarebbe stata la risposta del pubblico? Quali lettori avrebbe attratto? Come lo avrebbero accolto in libreria? E nel mondo archivistico?) in Promemoria è iniziato un momento di riflessione strategica che ha portato alla decisione di rinnovare il progetto ogni quattro numeri, cambiando di volta in volta il gruppo redazionale, e il progetto grafico. Un modo per poter collaborare con più persone possibili, dare sempre nuova linfa al progetto, rischiare ogni volta, ma con la consapevolezza di caratterizzare Archivio tramite l’identità dell’azienda, votata alla sperimentazione e al cambiamento: la rivista nasce infatti per trovare curatele d’archivio sempre nuove, per dare spazio a più voci possibile, per ospitare e sviluppare sensibilità differenti. È come se fosse il polmone di Promemoria: il suo scopo è portare da fuori nuovo ossigeno, nuove competenze, idee, strategie, interpretazioni al suo interno.

Quando è stato il momento di inaugurare il nuovo ciclo editoriale di Archivio, in Promemoria si è lavorato prima sulla struttura che si voleva avesse la rivista, per un paio di mesi ci si è concentrati sul trovare una nuova formula che permettesse di trattare la materia archivistica attraverso nuove chiavi di lettura.  Una volta trovata la soluzione — una forma quasi giocosa, che riproducesse in parte il cadavere squisito surrealista, guardasse alle persone come archivi viventi; e dove ogni numero rappresentasse un decennio del Novecento a partire dagli anni Novanta fino ad arrivare agli Sessanta — è iniziata la ricerca delle professioniste e dei professionisti che potessero interpretare al meglio questa visione, sia nel campo formale che in quello dei contenuti. Una ricerca fatta prima nelle nostre case, sugli scaffali delle nostre librerie: e poi nelle scatole dove si conservano pieghevoli, inviti, volantini, ritagli di giornale; ma anche nella memoria, agli incontri che avevamo fatto, le conferenze che avevamo seguito, le mostre che avevamo visto. 

archivio_magazine_issue_6jpg

Così abbiamo riunito sotto lo stesso tetto di carta Daniela Hamaui, prima direttrice donna della storia dell’Espresso e fondatrice di D di Repubblica; Studio Òbelo, il cui percorso che tiene insieme progettazione e ricerca ci sembrava perfetto per un magazine dall’identità raffinata, impreziosita dai particolari, pensata nel generale e nel dettaglio; Marta Sironi, di cui apprezzavamo il modo di guardare e racontare le figure, la sua formazione accademica da storica dell’arte intrecciata al lavoro editoriale; Valerio Millefoglie, autore capace di trovare nelle storie d’archivio un elemento umano, di dare voce e respiro a persone e oggetti, che abbiamo scelto come nuovo direttore di questo ciclo editoriale.

Riunita la squadra abbiamo iniziato a lavorare insieme, non prima di aver fatto salire sulla zattera di Archivio anche Antonella Emmi, Ben Bazalgette e Piernicola D’Ortona, formidabili traduttori dall’italiano all’inglese e dall’inglese all’italiano, e Matteo Fontanone, redattore dell’Indice dei libri del Mese con un presente in Einaudi: la classica persona da cui compreresti tranquillamente un’auto usata, e a cui dare le chiavi delle norme redazionali della rivista.

Da Hidden Memories abbiamo cambiato anche il sottotitolo della rivista in Future Memories, per raccontare e rievocare fatti a partire dai materiali d’archivio, intesi come punto di partenza di un discorso, serbatoio di storie per nuove storie.

Archivio magazine è completamente finanziato da Promemoria, che investe nella rivista interamente il budget annuale che sarebbe dedicato al marketing below e over the line.  Questa è stata la scelta di principio che ha reso possibile Archivio inizialmente: destinare una cifra che non portava risultati convincenti e in qualche modo neppure qualcosa che restasse in un progetto editoriale che fosse il migliore possibile, di massima qualità sia nei contenuti che nella realizzazione in tipografia (quella che gli amici di Edicola 518 chiamano La bella carta). Un magazine in cui si dimostra come i contenuti d’archivio possano diventare fruibili per chiunque se filtrati dalla curatela, stampato e realizzato per essere anche un oggetto desiderabile, porta alla cultura archivistica (e dunque a Promemoria, che gli archivi li costruisce, digitalizza, valorizza) molti più benefici di cento ADV che dicono “Quanto sono interessanti gli archivi”. 
Archivio è parte di una strategia aziendale e dunque deve attenersi a uno schema generale: internamente dunque è stato fatto un lavoro importante per rendere il progetto il più sostenibile possibile, fra calcoli sulle tempistiche di realizzazione, sulla distribuzione, sulla stampa tipografica, sulla tiratura. Poi: la regola è pagare sempre, pagare tutt*. Ogni persona coinvolta nella redazione di Archivio viene retribuita regolarmente: il lavoro è una questione di lealtà, e non è lavoro se non c’è un pagamento. Le persone che compaiono sul colophon della rivista sono tutte contrattualizzate, non abbiamo collaboratrici/collaboratori a cui promettiamo visibilità, o che coinvolgiamo per uno scambio di favori. Agli archivi che ci concedono i materiali mettiamo a disposizione una distribuzione a livello internazionale, un posto al sole su una rivista specializzata, l’occasione di portare i propri contenuti a un pubblico attento, ricettivo: mettiamo a disposizione la nostra serietà e la qualità del progetto.
C’è il discorso delle pubblicità infine: quella è una risorsa insostituibile, le porte sono aperte a tutte le istituzioni e i brand: qualunque ADV però non può comandare i contenuti del magazine, gli accordi prevedono sempre da parte nostra la libertà di rifiutare proposte di contenuti abbinati a una sponsorizzazione monetaria. 

Come linea generale nella comunicazione di Archivio più riesco a essere invisibile, meglio è: la rivista non ha bisogno di personalismi perché non è un mio progetto personale, ma di Promemoria.  Io come le altre persone della redazione, lavoriamo per la rivista, e non il contrario. Da parte di Promemoria la volontà è quella di tenere Archivio come un progetto che varia nel tempo e si rinnova continuamente: certamente a livello di comunicazione non è una cosa semplice, cambiare registro, gestire la transizione, lavorare sul muovere le acque. La mia figura dovrebbe dunque servire a tenere tutto insieme, man man che le cose cambiano, rendere il ponte fra Promemoria e la redazione del magazine sempre più saldo.
Nell’ultimo anno abbiamo lavorato con regolarità su Instagram: eravamo d’accordo sul dare un tono il più essenziale ma aperto possibile al profilo del magazine, popolarlo con contenuti interni ed esterni, cominciare a renderlo riconoscibile, colorato, facilmente intellegibile.L’importante è sempre non risultare scontati, o pressapochisti: meglio scegliere bene cosa si vuole dire con un post, capire se è in armonia con il resto della dashboard, provare anche a dire delle cose qualche volta, unire immagine e contenuto. I nostri sono social che provano anche schierarsi in qualche modo, recuperando materiale del passato proviamo a volte a dire delle cose sul presente, quando possiamo/riusciamo. 

Basta anche solo un accenno, a volte.

Poi: come avremmo voluto comunicare: con più presentazione possibile in librerie, festival, rassegne, fiere. Però questo bisognerà pazientare ancora un po’: la pandemia ha alterato il sistema, siamo sempre chiusi in casa o in ufficio, la situazione è cupa e a volte è necessario darsi degli obiettivi raggiungibili.